Quanti, scorrendo i dati statistici sul cosiddetto allungamento della vita, non provano uno strano sentimento di intima soddisfazione? Beh, anche se non stiamo tutti i giorni lì a pensare alla morte, sapere che forse potremo vivere qualche anno in più, non dispiace a nessuno. Perché, sarà pure una vitaccia ma, fortunatamente, è ancora difficile trovare chi, godendo di una discreta salute, non sia comunque contento di viverla sino in fondo. Eppure a qualcuno non è dato neppure di assaporare questa possibilità. Scopriamo l’acqua calda riferendo l’allungamento della vita dell’uomo alle conquiste della scienza, nelle sue variegate branche. Purtroppo però sta ormai diventando sempre più acqua calda l’impossibilità, per un numero sempre crescente di persone, di accedere alle cure anche se salvavita.
Siamo nell’epoca della biomedicina, dei farmaci innovativi, della invenzione di macchine avveniristiche delle mille forme di business sulla qualità della vita. Eppure non è a tutti garantito il sacrosanto diritto alla salute. Anzi il solco tra cittadini di questo stesso mondo nati, non per loro volontà, in Paesi agli estremi opposti, si allarga sempre di più. E ormai questo solco si insinua tra gli stessi vicini di casa. E sì perché potersi curare oggi in Italia, ma anche in diversi altri Paesi del mondo, diventa sempre più un lusso che in tanti non possono permettersi.
Il caso più recente riguarda una scoperta di cui dovremmo invece andar fieri. Si tratta del sofosbuvir, il costosissimo principio attivo che ha rivoluzionato la cura dell’epatite c portando le guarigioni complete dal 60 % al 95 % dei casi. La vicenda è nota. Messo a punto da una piccola azienda farmaceutica il sofosbuvir è stato però commercializzato da un colosso farmaceutico con “vista lunga” che ha pensato bene non tanto di acquisire il brevetto ma addirittura tutta la piccola azienda: l’ha comprata sborsando 11 miliardi di dollari. Nel giro di pochi mesi però, vendendo a peso d’oro il farmaco, ha guadagnato 16 miliardi di dollari. E sin qui le vicende di un sistema economico nel quale finisce, purtroppo, anche la salute dell’uomo espressa in valori commerciali. Sul mercato internazionale infatti avvengono le prime distinzioni: il prezzo cambia a seconda delle aree del mondo in cui il farmaco si vende. Così capita che nel mondo occidentale costi sino a dieci volte di più che nel Terzo Mondo. In casa nostra il problema si ingigantisce. L’AIFA, nel trattare con il produttore, riesce a spuntare un prezzo relativamente di favore se paragonato a quello sborsato dai partner occidentali. Poi però cominciano ad arrivare sul mercato farmaci alternativi a costi più bassi. Quindi il dilemma: meglio spendere di più per sradicare subito il male o spendere di meno ma più a lungo?. Dubbi amletici che chi ha soldi a disposizione neppure si pone: nette sul tappeto 45 mila euro e sconfigge il mostro. Chi soldi non ne ha si mette l’anima in pace e spera nelle promesse del servizio sanitario nazionale. E qui casca l’asino perché l’ultimo monitoraggio della ragioneria dello stato sul ssn certifica un disavanzo di 1,2 miliardi sulla spesa farmaceutica ospedaliera, dove a pesare di più sono proprio le specialità per curare l’epatite c. Se dovessero fornire a tutti i malati di epatite c in Italia – si calcola che siano almeno un milione – sarebbe la bancarotta. E allora? Dovremo istituire un giudice che stabilisce chi curare e chi no? Giocarci alla roulette i farmaci salvavita?
Torna in causa l’investimento irrisorio sulla ricerca assicurato dallo Stato. Le industrie farmaceutiche, ormai è lapalissiano, investono soprattutto in ricerca su farmaci innovativi per patologie diffuse nei Paesi ricchi, dove è più facile aprire mercati nei quali non si bada a spese pur di riconquistare la salute perduta. Ma non sempre sono mercati di facile accesso, o non lo sono per tutti. E spesso è proprio lo Stato a rilasciare i pass.
Per restare al caso aperto dalle cure innovative per l’epatite C si segnala la scesa in campo di Cittadinanzattiva-Tribunale per i diritti del malato. "La realtà che le persone affette da epatite C stanno vivendo e che ci hanno segnalato nell'accesso alle nuove terapie che eradicano il virus non è certo quella di un servizio sanitario nazionale universale ed equo. Infatti – spiega Tonino Aceti, coordinatore nazionale del Tribunale per i diritti del malato e responsabile del Coordinamento delle Associazioni dei Malati Cronici di Cittadinanzattiva - il diritto a guarire è per pochi, quelli che sono ammalati abbastanza e che riescono a superare lo scoglio delle liste d'attesa anche di sei mesi; gli altri devono aspettare di peggiorare, o, se possono permetterselo, andare all'estero correndo magari anche qualche rischio. E mentre le istituzioni stanno a guardare, i vuoti lasciati dal Sistema sanitario nazionale sono stati colmati dai cosiddetti viaggi della speranza, principalmente in India; nel frattempo, cogliendo la portata di un bisogno insoddisfatto, alcuni soggetti ne hanno creato un business internazionale".
Tutto questo appare inaccettabile. Secondo Cittadinanzattiva innanzitutto il fondo per i farmaci innovativi deve essere rifinanziato già dalla prossima legge di stabilità con risorse nuove e senza intaccare il Fondo sanitario nazionale. Contemporaneamente bisogna continuare a far scendere i prezzi delle nuove terapie, puntando su una maggiore concorrenza tra produttori e formalizzando l'impegno dello Stato a garantire l'accesso per tutti. Solo così sarà possibile centrare l'obiettivo “Epatiti Virali 0” indicato dall'Organizzazione mondiale della sanità. Utopia?