Nei giorni scorsi, il Premio Nobel per la Medicina e la Fisiologia è stato attribuito a tre scienziati statunitensi che hanno studiato la regolazione genica dei nostri ritmi circadiani, cioè il cosiddetto “orologio biologico” che, per dirla grossolanamente, condividiamo con i moscerini del vino.

Ma, al di là del merito e del contenuto delle ricerche che hanno consentito a Jeffrey C. Hall, Michael Rosbash e Michael Young – tutti attorno ai settant’anni d’età – di ottenere il più alto riconoscimento scientifico, non va trascurato il fatto che questi loro lavori risalgono almeno a 35 anni orsono.

Questa latenza temporale, peraltro frequente per i premi attribuiti dall’Accademia Svedese della Scienza, si presta ad una considerazione forse non peregrina.

Trentacinque anni sono ben poca cosa se collocati nel plurisecolare arco temporale, dacché intendiamo “galileanamente” la scienza, ma sono forse una lunga stagione - che non a caso ci rimanda ai primi anni ottanta, per certi aspetti, un altro mondo in termini di ricerca – se li misuriamo sui ritmi di quella spasmodica ed irrefrenabile attesa di continue ed incalzanti innovazioni tecnologiche, che spesso ci prende la mano ai giorni nostri.

La scienza - soprattutto quella “vera”, in sostanza la ricerca di base, a più forte innovazione “conoscitiva”, non meramente tecnico-applicativa – ha bisogno di una sua stratificazione temporale non indifferente sia per essere costruita che per essere riconosciuta nel suo effettivo valore.

Tutto questo senza iperboli, enfasi o clamori mass-mediatici così spesso fuorvianti e perfino controproducenti, quando generano attese sperticate, talvolta oggetto di illusioni e di successive disattese che non fanno bene alla scienza ed, anzi, più spesso di quanto non si creda, producono diffidenza o addirittura timore nei suoi confronti.

 

 

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