Cinquantacinque anni di una testimonianza meravigliosa, maturata nell’imperscrutabile mondo della sofferenza. E’ la grande eredità lasciata all’umanità intera da Stephen Hawking , l’astrofisico deceduto martedì scorso dopo aver condiviso quasi tutta la sua vita con una malattia invalidante, la sla. Disabile motorio gravissimo e grande scienziato (a lui si devono i primi studi sui buchi neri) puo' essere considerato un ammonimento esemplare - in un contesto civile ispirato a canoni estetici che enfatizzano l'avvenenza e la prestanza fisica - per chiunque guardi ai portatori di handicap con un certo fastidio o, tutt'al più, con compassionevole compatimento, comunque con un atteggiamento di sufficienza, piuttosto che con rispetto vero e con solidarietà. La vita di Hawking ci insegna proprio questo: a non lasciarsi trarre in inganno dal formale ossequio ai precetti del "politicamente corretto" che così spesso vengono omaggiati solo a parole, senza sincerità e senza convinzione.
Stephen Hawking è stato sì un grandissimo scienziato, ma soprattutto è stato un uomo straordinario. Una sedia a rotelle, progettata su misura, e un computer con sintetizzatore vocale sono gli unici mezzi che gli hanno permesso di comunicare con il mondo; ma nonostante ciò, e nonostante la sua invalidità paralizzante, è stato capace di stupire. I suoi lavori vivranno ancora per molti anni oltre la sua scomparsa. Il suo coraggio e la sua perseveranza, insieme al suo essere brillante e al suo umorismo, hanno ispirato tante persone e in ogni parte del mondo. Era famoso per le sue pungenti battute: "La vita sarebbe tragica se non fosse divertente." E, ancora: "Il più grande nemico della conoscenza non è l'ignoranza, è l'illusione della conoscenza". Ha ispirato anche un film sulla sua vita.
Un messaggio chiaro, chiarissimo per tutti quegli ambienti in cui la limitata autonomia funzionale o cognitiva di una persona finisce per diventare un limite, a maggior ragione severo per quel sottile sentimento se non di ostilità, almeno di indifferenza con cui la si isola, quasi che la sua disabilità sia contagiosa o piuttosto evochi, come fosse una minaccia incombente, quella condizione di fragilità esistenziale da cui nessuno può ritenersi immune.