Va riconosciuto alle autorità del nostro Paese il merito di aver assunto una posizione coraggiosa in ordine alla drammatica vicenda del piccolo Alfie, il bimbo di Liverpool per il quale la giustizia inglese ha ordinato di “staccare la spina” per lasciarlo preda della sua “incurabile” malattia e dunque affrettarne la mortye. Il nostro Governo ha concessa ad Alfie la cittadinanza italiana perché i genitori possano portarlo al Bambino Gesù – dove gli hanno aperto le braccia - e coltivare un'ultima, per quanto forse vana, speranza e tentare un'ultima disperata terapia.
Dovremmo essere orgogliosi che la nostra cittadinanza valga, in questa occasione, da salvacondotto per rendere ai genitori quella patria potestà di cui la legge del loro Paese vorrebbe privarli, in nome di una imposizione che conosce solo le regole asettiche della compatibilità economica e la presunzione inappellabile della scienza.
In fondo la decisione assunta dal Governo riflette ed interpreta il nostro carattere di italiani, quella "cifra" di calore umano della nostra gente che non risponde all'illuministica cogenza degli algoritmi che presiedono al rapporto costi-benefici, e non riesce a dimenticare il valore insindacabile della vita.
Sarebbe straordinario scoprire che in un momento di difficoltà e di stallo per la vita politico-istituzionale dell'Italia, una determinazione in fondo così particolare, assunta con semplicità e franchezza, riesca a toccare le corde più profonde di quel sentimento di umanità che rappresenta la vocazione unitaria di un popolo che, anche quando crede di averlo scordato, ha imparato molto alla scuola della sua millenaria civiltà.
Certo non bisogna cadere nell'accanimento terapeutico. Ma è sempre così immediato e facile stabilirne il confine? È ancora lecito sperare? E non è forse un fatto di grande valore civile, nel segno della libertà, riconoscere uno spazio che consenta di assecondare quelle ragioni del cuore che un genitore ha comunque diritto di coltivare?
A qualunque approdo giunga la vicenda di Alfie, ha in se' un monito che non dobbiamo disattendere, un invito a non farci imprigionare nel bozzolo di una presunzione che nega a priori quel dubbio che pur rappresenta la fonte originaria di quel domandare incessante che costituisce la scienza.