"Il problema della natalità...va considerato…nella luce di una visione globale dell'uomo".
Lo afferma Paolo VI nella lettera-enciclica "Humanae vitae" che molti ricordano, in questi giorni della sua canonizzazione, come uno dei documenti più significativi di un grande Pontefice.
Reca la data del 25 luglio 1968, a soli cinque anni dalla conclusione del Concilio Ecumenico Vaticano II, a soli due mesi dal cosiddetto "maggio francese", dunque nel momento più acceso di quella dura contestazione di ogni preesistente equilibrio che investì, per molti aspetti, anche la Chiesa e che segnò, in ogni caso, una transizione epocale.
In quella tempesta confusa ed inquieta di opinioni, di nuovi costumi, di atteggiamenti iconoclasti, ma anche di speranze e di ricerca di una nuova condizione umana, Paolo VI pose un punto fermo, per quanto discusso fuori e dentro la Chiesa.
In quegli anni eravamo ancora lontani, anzi neppure si poteva ancora immaginare la portata delle sfide etiche che ci attendevano, sulla scorta delle potenzialità biotecnologiche che, nel frattempo, si sono imposte.
Eppure riletta a cinquant'anni di distanza, la “Humanae Vitae” ha una intonazione profetica, capace, cioè, di illuminare ed orientare il giudizio in ordine a quesiti oggi dirimenti, allora ancora impensabili.
Afferma come non si possa "esporre all'arbitro degli uomini la missione di generare la vita".
Afferma ancora come "si devono necessariamente riconoscere limiti invalicabili alla possibilità di dominio dell'uomo sul proprio corpo e sulle sue funzioni".
Prese di posizione nette che sembrano pronunciate oggi, nel bel mezzo di un confronto sui temi di carattere bioetico di cui, forse, l'opinione comune fatica ancora a comprendere l'importanza decisiva per il nostro domani.
Un domani che potremo governare consapevolmente solo se sapremo collocarci dentro quella "visione globale dell'uomo" che Papa Montini, oggi Santo, ci invita a non smarrire.