Ci sono fatti o situazioni, perfino sentenze come nel nostro caso, che - nella misura in cui saltano a pie pari quelle regole di senso comune che sicuramente sono, ad un tempo, ancora profondamente radicate nella coscienza popolare eppure costantemente minacciate - o non si possono commentare o si commentano da sole.
La sentenza della Corte Europea dei Diritti Umani dello scorso 27 gennaio relativa ad un caso di "utero in affitto" e, nel contempo, di "acquisto" di ambedue i gameti in Russia, da parte di una attempata coppia italiana, rientra tra queste.
A prescindere dal pur rilevantissimo argomento dell'autonomia legislativa dei singoli Stati dell'Unione in materia così delicata, è sconfortante constatare come, presso organi giurisdizionali di così' alto profilo, appaia ormai acquisito, secondo gli schemi del più scontato e banale "politicamente corretto", il concetto secondo cui un figlio è un "prodotto" che ha, quindi, un suo prezzo di mercato e il diritto a "fabbricarlo" rientra perfettamente nella logica della società dei consumi.
Almeno due aspetti che segnalano una possibile, pericolosa involuzione della coscienza morale collettiva, meritano di essere segnalati.
I desideri, anzitutto, diventano "tout court" diritti.
Tutto ciò che è tecnicamente possibile diventa, per ciò stesso, eticamente corretto. Senonché qui si apre un abisso di alienazione dell'"umano" come tale.
E dobbiamo pure chiederci: su quali basi etiche immaginiamo di far avanzare l'unità europea?
Le nostre istituzioni e le forze politiche che ne pensano o almeno si pongono il problema?
La sentenza CEDU ci interroga
- Ufficio Comunicazione