“Una provocazione: quanto è necessario per chi si occupa di salute all’interno della Chiesa, rimanere all’interno delle proprie strutture e non uscire invece sul territorio, offrendo le cure raggiungendo il malato a livello domiciliare?”. La provocazione di Don Massimo Angelelli, Direttore dell’Ufficio Nazionale per la Pastorale della Salute della CEI è stata girata alle strutture associate all’ARIS, riunite a Roma per la loro Assemblea Generale.  “E’ necessario ricordare – ha aggiunto Don Massimo - che le nostre Opere devono sempre ispirarsi ai carismi e quindi tenere presente l’obiettivo primario che è l’evangelizzazione. Al di fuori di questo potremo essere efficienti, efficaci, professionalmente all’avanguardia, ma non saremo ciò che siamo chiamati ad essere, ossia opere di Chiesa. Portare il nostro operato anche a casa del paziente vuol dire farsi “Chiesa in uscita” come spesso ci invita papa Francesco. Cura come occasione di accoglienza, di vicinanza e quindi di testimonianza, interna ed esterna. Dobbiamo mostrare al mondo che esiste un modo diverso di fare sanità, proponendo nuovi modelli missionari a favore dell’uomo e della cura della sua salute”.
“Il nostro compito, come opere della Chiesa – ha spiegato Don Angelelli – è quello di farsi vicino a coloro i quali si sentono smarriti, ricordando come Gesù Cristo, nel Vangelo, ci abbia invitato ad andare alla ricerca di quella pecora smarrita, anche davanti alle 99 presenti”. Come operatori sanitari e persone chiamate a lenire la sofferenza – ha ribadito ai presenti - non possiamo perdere nemmeno una delle persone a noi affidate, specie quelle che non hanno avuto la possibilità neanche di arrivare nelle nostre strutture e nelle strutture sanitarie in generale”.

“Non dobbiamo – ha continuato – accontentarci di occuparci di chi è già presente, è necessario cercare chi è solo, isolato, chi non è accolto, chi non ha accesso alle cure, e farci suo prossimo, presenza “vicina”, perché anche quando abitato dalla solitudine possa sentirsi finalmente abitato dall’amore”.

Riprendendo il messaggio del Santo Padre per la XXVI Giornata Mondiale del Malato 2018, in programma il prossimo 11 febbraio, il religioso ha ribadito la necessità di continuare ad operare con “rinnovato vigore”, come invita il Papa, perché è peculiarità delle opere di vita religiosa, come quelle a cui fanno capo le strutture sanitarie aderenti all’Aris, essere capaci di ricominciare sempre. Rispondere con rinnovato entusiasmo e riconfermata passione al bisogno di mettere la persona al centro di un processo terapeutico e di un’organizzazione sanitaria che non vuole nutrirsi di efficientismo, ma, riprendendo papa Francesco, “curando anche quando non si è in grado di guarire”, modulando su questo concetto basilare il nostro modo di curare”.
Concetti questi ribaditi e fatti propri dal Presidente dell’ARIS Padre Virginio Bebber, il quale ha inteso riaffermare il ruolo delle strutture sanitarie della Chiesa nel contrastato mondo della sanità italiana.

Una sanità che pone ancora molte sfide da affrontare perché il diritto alla salute possa concretizzarsi in modo appropriato, aspetti ancora da sviluppare per poter far sì che la sanità sia come dovrebbe essere, senza ammantarsi di una sfiducia che nei cittadini assume sempre di più i contorni della cronicità. Argomento che è stato poi affrontato dall’onorevole Federico Gelli, il quale ha tra l’altro colto l’occasione della partecipazione all’Assemblea dell’ARIS per denunciare il fatto che “in Italia ci sono 500 ospedali a pericolo sismico, che necessiterebbero perciò di una immediata messa in sicurezza”, a confronto di un patrimonio che si va via via depauperando” costituito dalle “decine e decine di strutture ospedaliere da tempo dismesse e completamente abbandonate. La loro commercializzazione sarebbe forse un’ottima fonte di finanziamento proprio per l’edilizia ospedaliera”.  Potrebbe sembrare quanto meno estroso il sillogismo dell’onorevole Federico Gelli per affrontare una questione decennale come quella della pericolosità di certe strutture ospedaliere. Invece fa riflettere sul pericoloso stato in cui versano centinaia e centinaia di strutture sanitarie italiane, pubbliche o private convenzionate non cambia, alcune delle quali “rese addirittura obsolete dal passare del tempo, più di cinquant’anni per molte di esse, senza mai essere state ritoccate”. E “sopportare l’esistenza di ospedali che rischiano di crollare sotto le scosse di uno dei tanti terremoti che sconvolgono il nostro territorio, è una responsabilità politica difficile da assumere e da condividere”.  Non ci sono soldi per la sanità, ha ricordato quanto almeno sancito dalla recente Legge di Bilancio “ma – ha detto - strade alternative per reperire fondi se ne possono trovare. Basta volerlo”.

Ed ecco la sua proposta: reperire i fondi per la necessaria ristrutturazione degli edifici sanitari “con una semplice operazione di riutilizzo del materiale abbandonato. Mi riferisco – ha spiegato nel suo intervento in Assemblea -  alla possibilità di affidare alla solidità della Cassa Depositi e Prestiti  nazionale le strutture ospedaliere dismesse” e abbandonate – in Italia ce ne sono tante, tipo il Forlanini di Roma – affinchè “l’importante e affidabile  istituto le valorizzi come possibili investimenti per soggetti privati, nazionali e internazionali, interessati alle strutture anche in vista di un possibile cambio d’uso. Il guadagno potrebbe poi essere destinato ad un fondo per la restaurazione e la messa in sicurezza delle strutture, pubbliche o convenzionate che siano, perché su questo piano, è bene ribadirlo, la legge ha messo tutti insieme e senza distinzioni”.  Anche perché ormai “il 40% delle prestazioni sanitarie viene erogato dal privato. Un dato da non trascurare assolutamente anzi, bisogna tenerne conto se per esempio si pensa al problema delle liste d’attesa, altra grave ingiustizia nel mondo della sanità. Non ci sono o non dovrebbero esserci tempi d’attesa per la malattia. E non sono convinto che sia un problema senza soluzione”. Ed ecco la sua proposta anche per le liste d’attesa: “Credo siano piuttosto figlie di un deficit organizzativo territoriale. Bisognerebbe cominciare a gestire liste unificate ed allargare lo spazio territoriale degli enti erogatori”, magari considerando per i privati convenzionati anche “la qualifica del non profit  a garanzia  del fatto che – ha detto -  dietro l’offerta di servizi non ci sia nessun tipo di business”.
 

Documentazione

Questionario sulla prevenzione del rischio clinico nelle strutture associate all'Aris.

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