Sono state rese note le motivazioni con cui la Corte Costituzionale ha rinviato al prossimo 24 settembre il proprio pronunciamento in ordine alla costituzionalita', dell'art. 580 del Codice Penale che incrimina le condotte sia di istigazione che di aiuto materiale al suicidio. La Corte, lo ricordiamo, aveva anche sollecitato nel frattempo "la sopravvenienza di una legge che regoli la materia in conformità' alle segnalate esigenze di tutela". La palla è passa, dunque, al Parlamento.
In proposito ci limitiamo, per ora, ad alcune osservazioni preliminari, salvo entrare più avanti e più direttamente nel merito:
***ritenere che la vita sia un bene "indisponibile" - come, a nostro avviso, e' giusto che sia; anzi, per noi addirittura " sacro" - significa riconoscere come ciascuno di noi sia titolare di un diritto che non si esaurisce nell'orizzonte del suo pur legittimo interesse particolare, bensì lo investe di un dovere e di una responsabilità di carattere sociale e collettivo.
Vuol dire, altresi', riconoscere come l' "autodeterminazione" , nella misura in cui significa facolta' di decidere da se' ed in funzione' di se', non sia mai pienamente esaustiva del valore integrale della libertà. Il concetto di libertà infatti esige il riferimento irrinunciabile all'individuo inteso non solipsisticamente, ma piuttosto come attore di relazioni intersoggettive che lo costituiscono nella sua dimensione personale.
***per quanto sia vero che l' eutanasia e' stata legittimata in molte nazioni del contesto europeo ed occidentale cui anche l'Italia concorre, non sta scritto da nessuna parte che il nostro Paese debba necessariamente adeguarsi ed accettare acriticamente una omologazione passiva all'indirizzo prevalente, senza rivendicare a pieno titolo la propria specificità storica e la propria cultura millenaria di alto profilo umanistico;
***pensiamo, inoltre, che chi proponga di legittimare nel nostro ordinamento giuridico l'eutanasia debba essere pienamente cosciente del fatto che una tale disposizione ,vedrebbe inevitabilmente affermarsi, al di là della lettera del dettato legislativo, una dimensione di carattere sociale intrinsecamente discriminante, capace addirittura di riaccendere divaricazioni di impronta francamente "classista".
Alla lunga, sarebbero anche qui i più poveri a soffrire più direttamente di quella precarizzazione del diritto alla vita che finiremmo, via via, per subire come scenario ineludibile.
***perché invece non pensare a promuovere una cultura dell’accompagnamento, capace cioè di aiutare il malato terminale a non sentirsi abbandonato affettivamente né tantomeno un peso per i suoi e per la società? La sofferenza si può lenire e addoirittura rendere sopportabile con la medicina più antica del mondo: l’amore.