Un progetto dell'Hospice “S. Maria delle Grazie” della Don Gnocchi per dare serenità ai pazienti
Ha l’obiettivo di “curare l’anima” il progetto promosso dall’Hospice “S. Maria delle Grazie” di Monza. L’iniziativa - dal titolo “I colori che curano” - vuole regalare un po’ di leggerezza in un momento molto delicato e fragile per le persone assistite. Agli ospiti che lo desiderano viene, infatti, proposto di completare un disegno prestampato o un “mandala” con linee curve, attraverso l’uso dei colori, incoraggiando l’espressione delle proprie emozioni. Il ricordo di momenti di vita spensierati e la comunione con i propri cari (spesso il colorare viene eseguito con l’aiuto dei figli e dei nipoti) aiuta a ridare un senso al tempo che resta e a recuperare il senso di appartenenza al proprio contesto.
“È determinante in hospice – spiegano gli operatori – alleviare anche la sofferenza emotiva e spirituale dei pazienti, che spesso si sentono di peso per gli altri, perdono il senso della propria vita e della propria malattia, non riescono a perdonare e non si sentono compresi”.
“La costante presenza dell’idea di morte e la perdita di capacità e ruoli – sottolinea la responsabile sanitaria dell’Hospice, Adriana Mapelli - appesantisce la situazione e può portare a perdere il senso della propria vita, anche negli ultimi tempi. Colorare è allora un esercizio, un gesto semplice che aiuta le persone a raggiungere uno stato di tranquillità interiore che permette di allontanarsi dai problemi quotidiani, riassaporando attimi di fanciullezza. Lasciare un proprio disegno ai familiari costituisce in alcuni casi un vero e proprio lascito fatto di ricordi di vita e di emozioni condivise”.
“Anche con persone deteriorate cognitivamente – conclude - siamo riusciti ad ottenere, seppur per brevi momenti, una maggior serenità e una connessione con la realtà che hanno permesso scambi relazionali anche intensi con il proprio familiare”.
La cineterapia aiuta i caregiver di persone con disabilità
Il cinema come terapia riabilitativa a supporto dei familiari che si fanno carico di pazienti con deterioramento cognitivo. Se ne parla in uno studio promosso da Medicinema Italia Onlus e dal Centro di Neuropsicologia Cognitiva ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda di Milano, con il sostegno della Fondazione Don Gnocchi.
“L’assistenza di un familiare con disabilità richiede energie e tempo - ha sottolineato Gabriella Bottini, responsabile del Centro di Neuropsicologia Cognitiva e docente all’Università degli Studi di Pavia - crea spesso isolamento sociale e stress e può diventare “burden”, vera e propria condizione patologica che può colpire la sfera della socialità, quella economica, quella della fatica fisica o quella emotivo-psicologica dei caregiver di pazienti con demenza.
Oggi i caregiver hanno un’età media di 59,2 anni e sono per il 70 per cento donne, in gran parte familiari dei pazienti, solitamente le figlie. Si stima che in Italia ci siano circa tre milioni di caregiver coinvolti direttamente o indirettamente nell’assistenza di persone con fragilità: il tutto in una situazione che nell’ultimo anno si è ulteriormente aggravata per via delle restrizioni conseguenti alla pandemia.
È in questo contesto che si inseriscono la cineterapia e l’iniziativa avviata da alcuni anni da Medicinema Italia, con proposte di contenuti filmici a scopo terapeutico, veri e propri cortometraggi della durata di dieci minuti ciascuno, composti da diverse parti di film, documentari e pubblicità recuperati dall’archivio della Cineteca Italiana.
Lo studio ha proposto a cadenza regolare la proiezione dei cortometraggi ai caregiver di pazienti con diverse disabilità, con l’obiettivo di ridurre il loro livello di ansia e stress. L’emergenza sanitaria imposta dalla pandemia ha costretto a una rimodulazione della proposta, proseguita comunque da remoto. I risultati hanno evidenziato come i cortometraggi emotivamente positivi abbiano avuto un impatto fortemente significativo sui soggetti interessati, rispetto invece a quelli a semplice contenuto neutro.
“I risultati preliminari dell’intervento sono incoraggianti – ha continuato Gabriella Bottini - e rappresentano l’inizio di un percorso di ricerca per la creazione di protocolli scientifici che includano le componenti sociali nei processi di terapia e assistenza”.
"Sindrome post Covid", la sfida per la riabilitazione
L’insieme delle conseguenze disabilitanti che spesso permangono una volta passata la fase acuta della malattia, anche dopo la negativizzazione, è definita “sindrome post Covid”.
Può presentare sintomi respiratori, cardiocircolatori, gastrointestinali e neurologici, accompagnati da senso di fatica, dolori muscolo-scheletrici, depressione, ansia.
Il numero dei casi riscontrarti l’ha posta all’attenzione della Simfer (Società Italiana di medicina fisica e riabilitativa), che ha organizzato un webinar sull’argomento, a cui sono intervenuti alcuni medici del Centro “Spalenza-Don Gnocchi” di Rovato (Brescia).
In presenza di questi disturbi che persistono anche dopo la guarigione dall’infezione entra in gioco la riabilitazione che, secondo le raccomandazioni dell’OMS, deve iniziare prima possibile, attraverso programmi individuali e personalizzati che tengano conto dei diversi setting, dal ricovero in struttura riabilitativa al domicilio, con l’utilizzo anche della teleriabilitazione e delle nuove tecnologie. Si tratta di un percorso che nella struttura Don Gnocchi di Rovato ha coinvolto tutto il team multidisciplinare del Centro, e che prevede anche un supporto psicologico, con il coinvolgimento dei familiari del paziente.