Coinvolge 6 importanti centri italiani, tra cui l’IRCCS Centro San Giovanni di Dio-Fatebenefratelli di Brescia, la Fondazione S. Lucia-IRCCS di Roma e il Dipartimento Ricerca e di Medicina di Laboratorio dell'Isola Tiberina di Roma, uno studio ("meta-analisi"), pubblicato recentemente sulla rivista internazionale "Biomolecules", che suggella lo squilibrio del rame “cattivo” nell’organismo come fattore di rischio per la malattia di Alzheimer.
L'Alzheimer colpisce oggi circa 30 milioni di persone nel mondo (di cui 600 mila solo in Italia).
Una vasta letteratura scientifica negli anni ha supportato la tesi del rame "cattivo" (non-ceruloplasminico) quale fattore di rischio per questa patologia. Si tratta di quel rame anche detto "libero" che - diversamente dal rame "buono" - non si lega ad una proteina, la ceruloplasmina, attraverso la quale viene trasportato nell'organismo per contribuire allo svolgimento di importanti funzioni vitali e metaboliche. Il rame "fuori" dal controllo delle proteine innesca così reazioni ossidanti che vanno a danneggiare cellule e tessuti.
La ricerca, che ha coinvolto importanti strutture sanitarie italiane, ha esaminato 56 studi realizzati tra il 1984 e il 2020 su un totale di 6000 soggetti, e li ha messi a confronto con un nuovo studio "di replica", che ha analizzato diversi marcatori di rame e varianti del gene ATP7B associato alla sua disfunzione.
"Dalla meta-analisi condotta si evidenzia che nella malattia di Alzheimer la presenza di rame nel cervello diminuisce, mentre nel sangue aumenta. I due dati non sono in contraddizione tra loro: fanno parte di uno squilibrio sistemico tra rame "buono" (legato alle proteine) che diminuisce e rame "cattivo (non legato alle proteine) che aumenta", spiega Rosanna Squitti, ricercatrice al Fatebenefratelli-Isola Tiberina di Roma e capofila dello studio.
"Questo squilibrio - continua - è lo specchio di un altro tipo di patologia legata al rame tossico, la malattia di Wilson, assunta come paradigma per lo studio sul ruolo del metallo nell'Alzheimer. L'eccesso di rame non-ceruloplasminico aumenta di 3 volte il rischio di ammalare, e lo studio 'di replica' (condotto su circa 170 pazienti), che abbiamo associato ai 56 studi esaminati, dimostra che i portatori delle varianti-rischio del gene ATP7B sono più suscettibili ad ammalare di Alzheimer".
Lo studio rafforza il sostegno a nuovi scenari terapeutici.
"Grazie al test del rame, effettuabile con un semplice prelievo del sangue - precisa la ricercatrice - è possibile identificare i soggetti che hanno valori di rame non-ceruloplasminico sopra la soglia di 1,6 µmol/L per intervenire su questo fattore di rischio modificabile, proponendo alle persone non ancora malate un cambiamento di stile di vita con una dieta a basso contenuto di rame, mentre per le persone già malate si potrebbero proporre dei trattamenti farmacologici, già in commercio, in grado di ridurre la presenza del rame tossico, analogamente a come si fa con la malattia di Wilson”. “A tale proposito – conclude la Squitti - abbiamo da poco iniziato un trial clinico di fase II, approvato dall’AIFA e finanziato dall’Alzheimer’s Association, che riguarderà persone con livelli di rame non-ceruloplasminico sopra soglia e con disturbo cognitivo lieve, per verificare se il trattamento farmacologico con lo zinco possa diminuire i livelli di rame e arrestare l'evoluzione del declino cognitivo".