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Nessuno resti solo nella malattia

Pubblichiamo l’editoriale che don Massimo Angelelli, direttore dell’Ufficio della Pastorale Sanitaria della Cei, ha scritto per l’ultimo numero del periodico “Vita Pastorale” .

Nel testo della Bolla Spes non confundit, con cui papa Francesco ha indetto il Giubileo 2025, vengono elencati alcuni ambiti in cui dare testimonianze concrete di speranza: «Segni di speranza andranno offerti agli ammalati, che si trovano a casa o in ospedale. Le loro sofferenze possano trovare sollievo nella vicinanza di persone che li visitano e nell’affetto che ricevono. Le opere di misericordia sono anche opere di speranza, che risvegliano nei cuori sentimenti di gratitudine. E la gratitudine raggiunga tutti gli operatori sanitari che, in condizioni non di rado difficili, esercitano la loro missione con cura premurosa per le persone malate e più fragili. Non manchi l’attenzione inclusiva verso quanti, trovandosi in condizioni di vita particolarmente faticose, sperimentano la propria debolezza, specialmente se affetti da patologie o disabilità che limitano molto l’autonomia personale. La cura per loro è un inno alla dignità umana, un canto di speranza che richiede la coralità della società intera» (11).

Parlare di speranza nel tempo della sofferenza e della malattia è necessario, ma non è mai semplice. Il malato ha certo la speranza di guarire. Superare la malattia è quanto desiderano la persona malata e le persone a cui è legata affettivamente. E anche il sistema di cura, la medicina e la ricerca, si pongono come primo obiettivo la guarigione. I progressi scientifici e le innovazioni in farmacologia rendono sempre più possibile un pieno recupero della salute per molte patologie. Ci sono ambiti, invece, in cui parlare di speranza sembra più difficile, e sono proprio quelle situazioni in cui la guarigione non sembra possibile a causa della natura stessa della malattia. Come si può parlare di speranza in assenza di una prospettiva di guarigione? Ci può essere una speranza nella sofferenza? Quando l’orizzonte si chiude a causa di una malattia degenerativa, di una lunga cronicità o perché si è nel tratto finale della propria esistenza terrena, si può dire ancora speranza? Prima di poter offrire una risposta a queste domande, per il profondo rispetto che nutriamo per i sofferenti, dobbiamo ricordare che l’esperienza della malattia, della perdita del controllo di sé stessi, quella sensazione in cui non sei più tu a guidare la tua vita, quanto piuttosto un difetto di funzionamento del tuo corpo o della tua mente, è una delle realtà più difficili da accettare. Sentimenti come paura, sgomento, incertezze sono naturali risposte del cuore a un evento imprevisto e indesiderato. La vulnerabilità è esperienza non facile da accettare e nessuno può essere valutato debole perché fatica ad accogliere lo sconvolgimento della propria esistenza. Il rispetto è dovuto in quanto esperienza personale, singolare e irripetibile. Non posso dire ti capisco, non sono te stesso. Ognuno vive in modo diverso la realtà più individuale che esista. Se si possa parlare di speranza, troviamo una prima risposta in Dossier-AnnoSanto2025: “I segni concreti di speranza”. Papa Francesco ci ricorda che peggio della malattia c’è solo l’ipotesi di viverla in solitudine. Perché non ci siano persone che affrontino la malattia in solitudine, un testo di Benedetto XVI, che ci apre alla prospettiva della salvezza: «La redenzione ci è offerta nel senso che ci è stata donata la speranza, una speranza affidabile, in virtù della quale noi possiamo  affrontare il nostro presente: il presente, anche un presente faticoso, può essere vissuto e accettato se conduce verso una meta e se di questa meta noi possiamo essere sicuri, se questa meta è così grande da giustificare la fatica del cammino»(SpeSalvi1).

 La fragilità non è un difetto. Si può parlare di speranza se si ha un orizzonte di senso che vada oltre il tempo presente. Il tempo dell’uomo, quello della vita terrena, offre elementi umani di speranza. Come ci invita Francesco, possiamo e dobbiamo, come cristiani, compiere gesti di fraternità e carità, cercare di sanare le nostre relazioni, costruire ogni giorno quei mattoni che formano la Chiesa viva dei credenti. Abbiamo bisogno di presenza e vicinanza, di carezze e gesti di cura, di attenzione e sostegno verso i più fragili e vulnerabili, che distinguano i cristiani dall’indifferenza sociale, dalla cultura dominante dell’efficienza e della performance, del sempre vincente che viene affermato come unico modello possibile. La fragilità non è un difetto, ma la mia caratteristica principale nella quale mi riconosco. È la mia preziosità e bellezza, unicità e identità, che non mi impedisce di realizzarmi. La mia dignità umana non è limitata, anzi la mia dimensione di fragilità richiede che venga trattato con cura. La cura è quanto viene richiesto dalle persone in difficoltà. Cura professionale, quella dei sanitari, che mai smetteremo di ringraziare per la peculiare scelta di farsi carico dei bisogni di salute di ogni persona. Scelta non facile, reiterata ogni giorno nonostante evidenti fatiche, che va apprezzata e rispettata. Cura fraterna, quella che nasce dalle relazioni, l’altro tipo di cura necessaria tanto quanto quella professionale. La tipica dimensione sociale della persona richiede relazioni di cura, non solo terapie. Ancora Francesco ci ha ricordato che peggio della malattia c’è solo l’ipotesi di viverla in solitudine. In questo Giubileo i credenti che vogliono fare un vero percorso di conversione e rinnovamento della propria vita spirituale si impegnino affinché nessuno resti più solo, perché nei nostri quartieri, nei paesi e nelle case non ci siano persone che debbano affrontare la malattia in solitudine. Cura professionale e relazionale sono inscindibili, a ognuno il suo compito. Oltre alcuni segni forti di speranza che possiamo  realizzare insieme, abbiamo bisogno di alzare lo sguardo verso un orizzonte di senso, quella speranza radicata nel Vangelo che ci fa intravedere oltre la vita terrena, eterna, che è descritta come gioia piena, bellezza infinita, superamento di ogni fatica e dolore. «Sarebbe il momento dell’immergersi nell’oceano dell’infinito amore, nel quale il tempo –il prima e il dopo –non esiste più. Possiamo soltanto cercare di pensare che questo momento è la vita in senso pieno, un sempre nuovo immergersi nella vastità dell’essere, mentre siamo semplicemente sopraffatti dalla gioia. Così lo esprime Gesù nel Vangelo di Giovanni: “Vi vedrò di nuovo e il vostro cuore si rallegrerà e nessuno vi potrà togliere la vostra gioia”(16,22). Dobbiamo pensare in questa direzione, se vogliamo capire a che cosa mira la speranza cristiana, che cosa aspettiamo dalla fede, dal nostro essere con Cristo» (Spesalvi12). Ogni persona sofferente ha bisogno di alimentare queste due speranze: una speranza umana, fatta di gesti di vicinanza e di cura, professionale e relazionale, che testimonino un accompagnamento contro la solitudine, contro ogni cultura dello scarto e l’abbandono; e una speranza cristiana, affidabile, che ci offra un orizzonte di senso, che non è uguale per tutti, ma che ognuno è chiamato a scoprire nel percorso della sua esistenza. Ci ricorda ancora Francesco che non c’è una benedizione nella malattia, non può esserci. C’è una benedizione nascosta, che va ricercata: «Avverto nel cuore la “benedizione” che si nasconde dentro la fragilità, perché proprio in questi momenti impariamo ancora di più a confidare nel Signore; allo stesso tempo, ringrazio Dio perché mi dà l’opportunità di condividere nel corpo e nello spirito la condizione di tanti ammalati e sofferenti» (Angelus,2marzo2025).


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