Parafrasando la saggezza popolare, l’intelligenza non è quello che si sa ma quello che si fa quando ancora non si sa. Se del caso anche non facendo nulla.
Enfatizzando gli estremi, il rapporto tra Enti Religiosi e riforma del Terzo Settore, ancora per certi versi un cantiere aperto, non deve essere visto né come un salto nel vuoto ma neppure come qualcosa di ineluttabile.
Queste due visioni sono separate da una serie di valutazioni intermedie che possono essere anche foriere di opportunità.
Da un lato il sistema istituzionale preme le nostre realtà verso i nuovi modelli come su un piano inclinato. Agevolazioni, coprogettazione, bandi, convenzioni, ecc. ecc., sembrano scivolare necessariamente verso i nuovi modelli. Lasciando fuori, emarginando, chi non saprà adeguarvisi.
Dall’altro, una larga fetta di servizi assistenziali e sanitari, per stare a un esempio che ben conosciamo, non può prescindere dalla nostra capacità di offerta e di presa in carico.
L’evoluzione è tra l’altro già nelle soluzioni lessicali.
La Legge 222/1985 definisce enti ecclesiastici le organizzazioni della chiesa aventi sede in Italia costituite e approvate dall'autorità ecclesiastica, che hanno fine di religione e di culto, educazione e beneficenza e sono riconosciute come persone giuridiche agli effetti civili.
Il passaggio alla locuzione della riforma, enti religiosi, che di per sé potrebbe apparire innocuo, in realtà cela la sottolineatura, appunto, della dimensione religiosa.
Un po’ come a dire che dimensione e finalità religiose, ferme le reciproche contaminazioni, possono essere opportunamente separate dalle attività assistenziali.
Che poi è lo schema logico che la riforma, direttamente o indirettamente, propone in ossequio alla cultura dominante.
Nel contesto assistenziale, oltre che in quello socioeducativo, le nostre realtà sono con le loro opere presenza storica e fattiva, irrinunciabile.
Ben prima dell’attuale configurazione dei moderni modelli di welfare.
L’interesse generale, declinato attraverso un elenco molto ampio di attività, abbraccia – ci mancherebbe – questi settori. Volere o volare ci siamo dentro, insomma.
Quello che manca, che per noi è elemento essenziale, è il modo di fare le cose. Modo che nella prospettiva religiosa si traduce con “carisma” e si legge con umanizzazione, personalizzazione, attenzione ai più fragili, posposizione dell’interesse economico, ecc. ecc. .
La riforma, potremmo pensare, non poteva considerare esplicitamente anche questo elemento. Doveva necessariamente darlo per scontato, anche se nella realtà non sempre lo è.
L’elemento identitario, vogliamo dire, ci fa fare fatica a scindere la prospettiva del carisma da quella dell’operare quotidiano (da cui il concetto di Opera). Sia quando si guarda ai “rami”, costruzione giuridica non priva di valore, sia con riferimento alla soluzione dell’ente terzo controllato.
Prendere un po’ le distanze dall’elemento identitario può essere però anche salutare.
Ci sono enti religiosi che sono già di fatto organizzazioni strumentali al fine assistenziale e realtà religiose in cui, invece, la dimensione e la vita religiosa sono ancora davvero importanti.
Non solo per questioni di governance.
Ma aiutiamoci in questa riflessione con una rilettura orientata della riforma.
Le ragioni della riforma del Terzo settore.
In conformità alle prescrizioni della legge delega (l. 6 giugno 2016, n. 106), con il Codice del Terzo Settore (d. lgs. 3 luglio 2017, n. 117) e il Decreto sull’Impresa Sociale (d. lgs. 3 luglio 2017, n. 112 - DIS) si sono voluti attuare i seguenti obiettivi:
- razionalizzare la previgente disciplina di settore, attuata soprattutto attraverso legislazione speciale, non sempre adeguatamente coordinati tra loro e con ordinamento generale;
- valorizzare il ruolo sussidiario del Terzo settore come parte integrante (e pensante) del sistema pubblico di welfare;
- accentuare la dimensione manageriale e professionale dell’attività degli enti del Terzo settore, circoscrivendo l’accesso alle risorse pubbliche disponibili per le attività di interesse generale ai soli enti legittimamente costituenti il “nuovo” sistema.
Quest’ultimo obiettivo va sottolineato.
La Riforma subordina l’iscrizione al RUNTS, anche per quanto riguarda i “rami”, a un complesso di requisiti di carattere giuridico, organizzativo e contabile, oltre che a forme di controllo pubblico. Questa cornice dovrebbe garantire adeguata gestione dell’attività e forme di rappresentanza per i portatori dei diversi interessi coinvolti.
Pensiamo, per esempio, al tema della trasparenza e al ruolo dei bilanci, compreso quello sociale, oltre che alla presenza di un Organo di controllo.Oppure, ancora, ai requisiti di onorabilità, professionalità e indipendenza per quanti assumono cariche sociali a cui siamo in parte già abituati in relazione ai contratti con la PA o alle numerose autocertificazioni che di volta in volta ci vengono richieste.
La riforma, potremmo dire più esplicitamente, supera il modello dell’ente non profit come mero strumento per l’accesso ad agevolazioni fiscali.
Le agevolazioni d’ora innanzi, è bene farsene una ragione, bisognerà guadagnarsele sul campo.
In questa prospettiva, per iniziare a fare un po’ di pro e di contro, i benefici che derivano dall’adesione alle disposizioni dalla Riforma devono essere valutati alla luce dei costi, anche rilevanti, di adeguamento alla disciplina propria degli enti del Terzo settore.
Elemento, quello dei costi di compliance, che necessariamente pone a sua volta una questione di dimensione minima: le attività devono avere dimensioni proporzionate, sufficientemente grandi, ai costi da sopportare dal punto di vista economico e organizzativo.
Resta, lo dicevamo in premessa, che l’adeguamento alle disposizioni della Riforma non è un obbligo ma una facoltà rimessa alla valutazione di ogni singolo ente.
Si possono infatti continuare a esercitare attività di interesse generale anche fuori dal sistema disegnato dalla Riforma. Il prezzo, in questo caso, è costituito dalla perdita delle agevolazioni che la riforma subordina all’iscrizione al RUNTS.
Non aderire alle previsioni delle Riforma vuol dire continuare a essere soggetti alle disposizioni pattizie, al Codice civile e alla normativa tributaria degli enti non commerciali così come tutt’ora vigente.
Il primo passo per avere accesso ai benefici previsti dalla Riforma è, infatti, l’iscrizione al RUNTS, che ha sostituito i diversi registri cui erano chiamati ad iscriversi gli enti non profit a seconda della specifica qualifica adottata.
RUNTS che non è altro che un’anagrafe unitaria, digitale, aperta alla consultazione.
Le agevolazioni.
L’accezione attuale di sussidiarietà chiede che in ragione dello svolgimento di attività di interesse generale gli ETS partecipino, sia direttamente che indirettamente, alla spesa pubblica. L’eventuale soggezione all’ordinario regime fiscale configurerebbe in questo senso, almeno in astratto, una sorta di inutile partita di giro, un po’ come dovrebbe essere per la famigerata IMU.
Ma è dopo che sono fatti salvi i principi che viene il difficile.
Il sistema tributario ETS vorrebbe infatti superare la prospettiva di un sistema “soggettivo” a fiscalità di vantaggio, a prescindere dal modello organizzativo, dalla tipologia di entrate e dagli obblighi di trasparenza.
Il legislatore della riforma ambisce piuttosto, anche se in concreto ci riesce soprattutto attraverso artifici, a restare nei confini degli schemi tipici del diritto tributario, proponendo qualche aggiustamento in considerazione della speciale funzione sociale assolta.
I nuovi parametri di commercialità e non commercialità sono così definiti, in conformità al diritto dell’Unione Europea, per inquadrare “fiscalmente” gli enti e attribuire le agevolazioni soltanto a quelli effettivamente più meritevoli.
L’art. 79 del CdTS determina come segue la natura commerciale o non commerciale degli enti del Terzo settore: un ente del Terzo settore può qualificarsi come non commerciale se le attività di interesse generale sono «svolte a titolo gratuito o dietro versamento di corrispettivi che non superano i costi effettivi», determinati «computando, oltre ai costi diretti, tutti quelli imputabili alle attività di interesse generale e, tra questi, i costi indiretti e generali, ivi compresi quelli finanziari e tributari».
È, tuttavia, riconosciuta la possibilità che l’ente conservi la qualifica di ente non commerciale, anche in presenza di avanzi derivanti dallo svolgimento delle attività istituzionali, purché i ricavi non superino di oltre il 6 per cento i relativi costi per ciascun periodo di imposta e un per tempo limitato di non più di tre periodi di imposta consecutivi.
Fin qui, tutto sommato, assunta come arbitraria la percentuale di avanzo ammessa del 6%, potrebbe anche essere comprensibile.
Il difficile viene subito dopo. Vengono in ogni caso, infatti, sempre considerate commerciali le attività di interesse generale esercitate in forma di impresa, come nel caso delle imprese sociali, o dietro il versamento dei corrispettivi che superano i costi sostenuti.
Con tutta evidenza del fatto che si sta attingendo forzatamente a categorie logico-giuridiche differenti. L’esercizio di impresa è infatti verificato a prescindere dalla marginalità/redditività di una attività, sulla base di criteri noti (stabilità, relazione corrispettiva, professionalità, ecc.) che nel caso delle nostre Opere necessariamente devono sussistere, anche per ragioni di responsabilità e sostenibilità.
La lettura prevalente di questa apparente antinomia – che piega a un criterio quantitativo il concetto di commercialità - è che l’art. 79 voglia semplicemente, si fa per dire, articolare la disciplina tributaria degli ETS su due categorie fondamentali: ETS non commerciali e imprese sociali.
In realtà l’effetto reale che si produce operando come abbiamo illustrato è distinguere sulla base della natura dei proventi dell’ente.
Chi esercita attività presso le quali la sostenibilità è garantita prevalentemente da corrispettivi (anche da accreditamento/convenzione), rischia di doversi qualificare come ETS commerciale (non riuscendo sempre a “governare” il margine del 6%). Chi si finanzia invece con un mix tra bandi, donazioni e corrispettivi più agevolmente può vestire l’abito dell’ETS non commerciale.
Sempre caso imprese sociali a parte, in particolare quelle costituite in forma societaria.
Gli ETS non commerciali beneficiano di un regime di sostanziale esenzione dalle imposte dirette e indirette (cfr.: artt. 79 e 82 CTS) e (2), oltre che della possibilità di ricevere donazioni che il donante, nei limiti fissati dalla legge, può dedurre o detrarre (art. 83 CTS).
ETS commerciali e imprese sociali, per contro, possono operare più liberamente, con il vantaggio – per le IS, che non sono comunque soggetti a tassazione gli utili reinvestiti nell’attività di impresa (art. 18, co. 1, D.IS). Sempre per le IS costituite in forma societaria con perdita delle agevolazioni fiscali indirette (esenzione IMU e deducibilità e detraibilità delle donazioni di cui all’art. 83, co. 6, CTS).
Sussidiarietà, co-programmazione e co-progettazione.
Il riconoscimento del ruolo sussidiario orizzontale degli enti del Terzo settore (cfr.: art, 118 Cost.) è il pilastro su cui si basano i principi dell’amministrazione condivisa.
Come è noto, La Corte Costituzionale (Sentenza 20 maggio 2020, n. 131) auspica che le caratteristiche proprie degli enti del Terzo settore (§ 1.2) siano effettivamente valorizzate in un contesto di rinnovata collaborazione dai soggetti e servizi pubblici: «.. è riconosciuta (agli ETS) una specifica attitudine a partecipare insieme ai soggetti pubblici alla realizzazione dell’interesse generale» in considerazione del loro radicamento e della loro esperienza e capacità di intervento.
L’art. 55 del CdTS chiede espressamente alle amministrazioni pubbliche di coinvolgere gli ETS nella programmazione, nella progettazione e nell’organizzazione degli interventi e dei servizi di interesse generale.
ETS non più, dunque, fornitore a basso costo della pubblica amministrazione ma, piuttosto, partner paritetico già per la progettazione dei servizi di welfare.
L’adesione al modello ETS, salve le resistenze culturali della PA e i rapporti di forza già esistenti, potrebbe in sintesi amplificare la collaborazione con la pubblica amministrazione nell’individuazione dei bisogni da soddisfare, degli interventi e delle modalità di realizzazione.
Enti religiosi e riforma.
Le modalità di adesione, pur con qualche variante, sono due.
Una prima è la soluzione del ramo ETS/IS, che ripropone – adattandolo al caso – lo schema a cui eravamo abituati per le Onlus.
Il ramo ETS/IS.
L’istituzione del ramo presuppone l’adozione di un regolamento (https://giuridico.chiesacattolica.it/modelli-di-regolamento-per-la-costituzione-di-un-ramo-ente-del-terzo-settore-o-impresa-sociale-da-parte-di-un-ente-ecclesiastico/) circoscritto all’esercizio delle attività di interesse generale e, eventualmente, alle attività diverse così come definite dal CdTS.
Nel rispetto della struttura e della finalità degli ER il regolamento recepisce le norme della riforma anche ai fini del deposito al RUNTS.
Completano l’operazione la costituzione/individuazione di un patrimonio destinato per lo svolgimento dell’attività di interesse generale e la tenuta di scritture contabili separate/analitiche.
Sotto il profilo sistematico il regolamento assolve alla funzione di dare uno “statuto” proprio all’esercizio delle attività di interesse generale, senza interferire con la struttura ecclesiale dell’ER.
Mediante il regolamento, infatti, viene assunta come vincolante per autonomia privata una disciplina dello Stato, altrimenti inapplicabile all’ER in quanto soggetto all’ordinamento suo proprio.
Così disciplinato e costituito il “ramo” assurge dunque ad articolazione speciale dell’ente religioso, restando nei confini della soggettività giuridica speciale dell’ER medesimo.
Le attività di interesse generale svolte attraverso il ramo possono essere assoggettate sia alla disciplina del CdTS che quella del decreto sull’IS o, eventualmente, a entrambe (non per la medesima attività, ovviamente).
Il tutto – per il caso della IS - senza troppi grattacapi e cortocircuiti istituzionali, grazie a taluni esoneri speciali della normativa (non è necessario prevedere la partecipazione dei lavoratori e degli utenti alla governance e, in caso di scioglimento volontario o di perdita volontaria della qualifica di impresa sociale non sussiste l’obbligo di devolvere il patrimonio ad altri ETS o al Fondo per la promozione e lo sviluppo delle imprese sociali).
Il D.M. 15 settembre 2020, n. 106, individua gli elementi essenziali che il regolamento deve definire:
a) le attività di interesse generale svolte e, se del caso, le attività diverse esercitate a fini secondari e strumentali;
b) il divieto di distribuzione, anche indiretta, di utili, fondi e riserve;
c) la tenuta separata delle scritture contabili relative alle attività di interesse generale e alle attività diverse, la redazione del bilancio di esercizio e, se del caso, del bilancio sociale, la tenuta dei libri obbligatori in conformità alla struttura dell’ente, il trattamento economico e normativo dei lavoratori.
Il patrimonio destinato, invece, può essere costituito anche con un atto distinto, da allegare al regolamento.
Nel regolamento occorre però disciplinare i poteri di gestione e rappresentanza, con menzione di eventuali limitazioni anche conseguenti ai controlli o alle autorizzazioni canoniche.
L’istituzione di un organo di controllo non è obbligatoria per gli ER ma è da considerare quantomai opportuna per le esigenze di trasparenza richiamate (spesso è ormai tra l’altro requisito contrattuale nei rapporti con la PA).
Per quanto riguarda la forma, la legge richiede che il regolamento venga adottato per atto pubblico o scrittura privata autenticata, con soggezione – se sono superati i limiti prescritti – alle ordinarie procedure autorizzatorie previste dal diritto canonico.
Per riguarda il computo vantaggi/svantaggi il “ramo” attua una adeguata segregazione patrimoniale e consente una carta autonomia di governance, ma resta, appunto, una sorta di ramificazione dell’ER, interno alla sua soggettività, con tutte le conseguenze del caso anche nei rapporti con i terzi.
La soluzione dell’ente controllato.
In alternativa al ramo l’ente religioso può costituire enti o società civili a esso collegati, idonei ad assumere la qualifica di ETS o di IS.
Gli enti così costituiti saranno giuridicamente distinti e autonomi, pur restando soggetti al controllo dell’ente religioso mediante la nomina dei relativi amministratori o – per il caso delle società – i tradizionali modelli partecipativi.
Questa soluzione consente di scegliere la forma giuridica considerata migliore per le singole attività di interesse generale, offrendo anche la possibilità di scindere meglio la proprietà e il possesso/utilizzo per i beni strumentali, anche allo scopo di preservare i vincoli canonici.
Le contropartite negative possono essere un incremento degli oneri gestionali e qualche spazio di anarchia in più, soprattutto laddove non si possa, o non si riesca, a prescindere dall’unitarietà di intenti, a separare gestione e governance rispetto all’ente religioso “madre”.
Conclusioni.
Come spesso accade gli elementi di valutazione per scegliere come porsi rispetto alla riforma non sono esclusivamente di carattere monetario, economico.
Ci sono senz’altro anche equilibri istituzionali e carismatici da preservare e c’è l’esigenza, se proprio ci si deve spostare da dove si è, di essere sicuri di trovarsi a proprio agio nel punto di approdo.
Almeno quanto lo si era dove ci si trovava.
La comparazione costi e benefici monetari richiede prudentemente che siano considerate anche le dimensioni dell’attività. E’ ragionevole che attività di medie/grandi dimensioni possano “sopportare meglio” oneri aggiuntivi.
Proviamo a fare un elenco delle questioni a cui porre attenzione.
L’indipendenza economica e finanziaria: in una lettura prospettica è opportuno certamente tener conto della deriva che la riforma propone verso i modelli ETS/IS. Se in termini qualitativi e quantitativi la dipendenza dalle risorse pubbliche corrispettive è elevata, l’adesione alla riforma potrebbe essere importante.
La struttura dei costi: in un modello a costi incrementali in cui le maggiori entrate potenziali a conti fatti fossero insufficienti l’adesione potrebbe invece risultare onerosa.
Le conseguenze/implicazioni fiscali: da valutare non solo in astratto ma in relazione ai risultati effettivi conseguiti in passato e conseguibili per il futuro.
Le implicazioni sulla struttura giuridico/istituzionale dell’ente: scegliere se non fare nulla o restare dentro la soggettività dell’ente religioso può dipendere anche da dinamiche relazionali interne o prospettive di durabilità nel medio periodo della presenza religiosa, almeno in misura sufficiente a garantire continuità al carisma.
La volontà di coinvolgere/responsabilizzare laici motivati: i laici possono essere una risorsa, bisogna capire come garantire a essi motivazioni e formazione, fuori o dentro le “mura” istituzionali dell’ente religioso.
In attesa dell’autorizzazione della UE.
Tutto quanto precede senza dimenticare che nonostante le numerose correzioni e l’emanazione dei decreti attuativi la Riforma, segnatamente per le porzioni fiscali, troverà piena e concreta applicazione solo dopo che la Commissione Europea ne avrà verificato la compatibilità con la disciplina degli aiuti di stato.
Cosa che, attualmente, la Commissione non ha ancora fatto.
Qualche tempo ancora per rifletterci lo abbiamo, insomma.