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L’ombra del Long COVID sul mondo

Il 22,9 % degli italiani ancora oggi denuncia sintomi dell’infezione

Sono trascorsi ormai cinque anni dal funesto inizio della pandemia Covid 19. Poco meno di un paio di anni dal momento in cui è crollata l’ultima barriera innalzata per farvi fronte. Ma proprio mentre il mondo cerca di lasciarsi alle spalle il trauma collettivo del COVID-19, una nuova crisi sanitaria silenziosa si afferma con forza nei sistemi sanitari: il Long COVID.

Secondo i dati dell’OCSE, raccolti attraverso la survey internazionale PaRIS, il 7,2% della popolazione over 45 che si rivolge ai servizi di cure primarie nei Paesi OCSE ha dichiarato di aver sofferto o soffrire ancora di Long COVID. E il 5,1% continua ad avere sintomi persistenti. Numeri che raccontano un’epidemia cronica, spesso sottovalutata e mal gestita.

Tra i Paesi OCSE analizzati, l’Italia registra una delle percentuali più alte di Long COVID nella popolazione assistita in cure primarie: circa il 9% dei pazienti over 45 ha riferito di aver sperimentato sintomi prolungati dopo il COVID. Inoltre, il 22,9% delle persone che hanno avuto l’infezione ha riportato sintomi compatibili con Long COVID, il dato più alto fra i Paesi europei coinvolti nella survey PaRIS.

Anche la persistenza oltre i 12 mesi dei sintomi è elevata: quasi il 4% dei pazienti italiani continua a manifestare disturbi legati al Long COVID. Questo colloca l’Italia in una fascia alta di incidenza, subito dietro Norvegia e Islanda. E ad esserne colpiti sono anche soggetti vaccinati che hanno comunque contratto il virus anche se in forma leggera.

Il Long COVID – una condizione caratterizzata da sintomi che si protraggono per più di tre mesi dopo l’infezione iniziale – è un rebus ancora poco decifrato per la medicina. I pazienti raccontano un’esperienza clinica frammentata, fatta di stanchezza estrema, dolori muscolari, disturbi respiratori, neurologici e psicologici. La fatica cronica, per esempio, colpisce un paziente su cinque con Long COVID, il doppio rispetto alla media degli altri pazienti.

Eppure, il riconoscimento ufficiale della condizione rimane discontinuo: solo due terzi dei Paesi OCSE adottano una definizione standardizzata (OMS o NASEM), e meno della metà ha sviluppato percorsi di cura strutturati.

Contrariamente all'immaginario comune che associa le complicanze COVID agli anziani, il Long COVID colpisce con maggiore frequenza donne tra i 45 e i 54 anni e persone con un alto livello di istruzione. Inoltre, il rischio aumenta con il numero di patologie croniche preesistenti. Ma anche in assenza di altre malattie, il 6% dei pazienti riferisce di aver sperimentato sintomi prolungati. Il risultato è che c’è sempre meno gente che si fida del sistema di cura che è stato adottato.

Il Long COVID, pur non impattando in modo significativo sull’occupazione secondo i dati PaRIS (una media del 13% è in malattia o disoccupata, dato simile a quello della popolazione generale con patologie croniche), pone interrogativi cruciali sulla sostenibilità dei sistemi sanitari e sul carico di malattia nel lungo periodo. Circa il 3,5% dei pazienti continua a manifestare sintomi oltre l’anno dall’infezione.

L’OCSE lancia un messaggio chiaro: bisogna investire in formazione del personale sanitario per migliorare il riconoscimento dei sintomi e definire percorsi di cura standardizzati. In gioco non c’è solo la salute individuale, ma la fiducia stessa nella medicina e nella capacità dei sistemi di prendersi cura dei cittadini, anche in casi di emergenza come accaduto nel periodo pandemico.

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